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Italy
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The basics

Quick Facts

Places
Gender
Male
Place of birth
Rovigo, Italy
Place of death
Venice, Italy
Age
56 years
Mario Pancini
The details (from wikipedia)

Biography

Mario Pancini

Mario Pancini (Rovigo, 5 agosto 1912 – Venezia, 24 novembre 1968) è stato un ingegnere italiano, ricordato per il disastro del Vajont.

Biografia

I primi anni

Mario Pancini nacque a Rovigo il 5 agosto 1912, primo figlio di Giulio Pancini e Maria Galeazzi (5 aprile 1888 - 16 aprile 1969). Il padre, nato a Varmo, in provincia di Udine, il 24 dicembre 1883, discendeva da una vecchia famiglia friulana di quella città, era ingegnere del comune di Venezia e, nel corso della sua carriera, divenne ispettore per la provincia di Venezia della Magistratura delle acque. Il fratello minore, Ettore Pancini, diventò fisico sperimentale, ed aveva anche una sorella, Irene, nata nel 1929.

La carriera

Pancini nella cabina comandi della diga del Vajont nel 1960.

Dopo la laurea in ingegneria civile alla Regia Università degli Studi di Padova con la tesi Calcolo di una diga ad archi multipli., venne assunto dalla SADE come fidato capocantiere ed era il numero uno del settore, ben noto e apprezzato a Venezia. Insieme all'ingegnere Carlo Semenza, progettò le dighe di Sauris, Pieve di Cadore, Val Gallina, Valle di Cadore, Val di Fassa e Mis. Amava la buona musica, conosceva bene le più importanti lingue straniere e riteneva il tedesco essenziale per un tecnico.

Nel gennaio 1951, insieme al collega Alberico Biadene, mandò una comunicazione al quarto congresso delle grandi dighe di Nuova Delhi, in India, in cui presentava i risultati di dieci anni di sperimentazione in laboratorio, sui vantaggi e gli svantaggi dei cementi per calcestruzzo di massa con le pozzolane, e la sua applicazione alle dighe del Lumiei e di Pieve di Cadore.

Fu il direttore dell'ufficio lavori pubblici al cantiere del Vajont, affidati alla ditta Torno per conto della SADE, e l'ideatore della galleria di sorpasso frana. Durante gli anni di costruzione della diga, abitava a Longarone. Non era né acquiescente, né indeciso nell'affrontare i compiti previsti per il suo ruolo. Il cosiddetto "programma Pancini", un suo progetto di accelerare artificialmente la scivolata della montagna attraverso invasi e svasi del serbatoio, per poi espropriare altre terre e farlo ritornare a funzionare, venne approvato il 23 novembre 1960 da Semenza, ma infine considerato da Biadene un ostacolo per raggiungere il massimo livello e quindi messo da parte nell'autunno del 1961.

Il 20 aprile 1962, alla morte del vecchio Giorgio Dal Piaz, il geologo di fiducia della SADE, subentrò al suo posto come il più stretto collaboratore dell'ingegner Biadene, l'ex vice del defunto Semenza, che da gennaio era diventato il nuovo direttore del servizio costruzioni idrauliche a Venezia. Diventò così direttore del servizio costruzioni idrauliche Enel-Sade, ma come successore di Dal Piaz non era preparato né tecnicamente né psicologicamente a una così pesante eredità. Infatti, proprio come Biadene rispetto a Semenza, non era in grado di interferire minimamente sulle decisioni di massima adottate dal conte Vittorio Cini, il presidente della SADE.

Il disastro del Vajont

Il 26 settembre 1963, l'ingegnere capo Biadene gli trasmise l'ordine di togliere l'acqua. Il 30 settembre, dopo essere stato a un congresso di geomeccanica a Salisburgo, Biadene gli telefonò a Roma perché informasse personalmente la sede centrale della Enel-Sade della situazione e del provvedimento preso di iniziare lo svaso. Espresse la preoccupazione per una eventuale frana in fianco sinistro del bacino e, preannunziando una visita di Biadene per il successivo 2 ottobre, pregò l'ingegnere Giacomo Baroncini, direttore centrale delle costruzioni idrauliche Enel, di convincere il consulente geologico governativo, il professor Francesco Penta, di fare un nuovo urgente sopralluogo.

Il giorno dopo, partì in aereo per trascorrere le sospirate ferie a Buffalo-Niagara, negli Stati Uniti: un periodo di sollievo, lontano dal Vajont e dai suoi angosciosi problemi. Ufficialmente, al cantiere lo sostituì l'anziano ingegnere Beniamino Caruso, il direttore responsabile degli impianti dell'Enel-Sade di Agordo per il medio Piave, con l'incarico di dare un'occhiata nel caso succedesse qualcosa di anormale. Quest'ultimo, tuttavia, non aveva ricevuto istruzioni da lui. Inoltre, fu temporaneamente revocato il trasferimento, già concesso, a Giancarlo Rittmeyer, un geometra del cantiere. La situazione era chiaramente anomala e, mancando l'ingegnere suo superiore, si riteneva opportuno che rimanesse di guardia qualcuno esperto della situazione.

Non si sentiva, però, tranquillo, se telefonava per avere notizie, che gli si inviavano anche in America. Il 3 ottobre, ricevette a Washington una lettera scritta da Biadene, nella quale gli diceva che il lago stava calando e le velocità andavano diminuendo nonostante piovesse. Il mattino dell'8 ottobre, Caruso si recò al Vajont con Biadene e, a seguito del sopraluogo, venne deciso di chiedere il suo rientro immediato dalle ferie. Così, la mattina del 9 ottobre, Biadene preoccupato scrisse una lettera al suo vice nell'Hotel Governor Clinton, a New York:

«Venezia, lì 9 ottobre 1963. Egregio ingegnere, la situazione del Vajont mi costringe a scriverle di rientrare a Venezia anziché andare a Wiesbaden. Questo rientro anticipato è anche consigliato dalla probabile presenza a Venezia, per decisioni che debbo ritenere importanti, del presidente e del direttore generale tra il 14 ed il 19 corrente. Tornando al Vajont, le dirò che in questi giorni le velocità di traslazione della frana sono decisamente aumentate. Ieri mattina sono state per qualche punto di 20 cm nelle 24 ore e questo sia in basso che in alto. Ieri sono stato sul posto con Caruso che segue le cose da vicino e tornerò lassù venerdì 11 corrente con l'ing. Baroncini e con il dottor Esu, mandato in avanscoperta dal prof. Penta in vista di una eventuale visita della commissione di collaudo o quanto meno dei componenti più attivi, il prof. Penta e l'ingegner Sensidoni. Le fessure sul terreno, gli avvallamenti sulla strada, l'evidente inclinazione degli alberi sulla costa che sovrasta la "Pozza", l'aprirsi della grande fessura che delimita la zona franosa, il muoversi dei punti anche verso "La Pineda", che finora erano rimasti fermi, fanno pensare al peggio. Ieri abbiamo telegrafato al Sindaco di Erto ed alla Prefettura di Udine chiedendo che sia ripristinata l'ordinanza di divieto di transito sulla strada; intanto il serbatoio sta calando 1 m al giorno e questa mattina dovrebbe essere a quota 701. Penso di raggiungere quota 695 sempre allo scopo di creare una fascia di sicurezza per le ondate. La popolazione è totalmente sgomberata da ieri sera e permane sul posto solo durante il giorno per la raccolta delle patate. In tutto questo affare quello che è veramente strano è che non si notino ancora cadute di materiale lungo i bordi dell'acqua. Mi spiace di darle tante cattive notizie e di doverla far rientrare anzi tempo. Grazie della sua cartolina e molti cordiali saluti. F.to dr.ing. N.A. Biadene. P.S. Mi telefona ora il geom. Rossi che le misure di questa mattina mostrano essere ancora maggiori a quelle di ieri, raggiungendo una maggiorazione del 50%!! (cioè da 20 cm a 30 cm). Si nota anche qualche piccola caduta di sassi al bordo ovest (verso diga) della frana. Che Iddio ce la mandi buona

Seppe del disastro del Vajont il 10 ottobre, poche ore dopo, attraverso un cablogramma di Biadene nell'Hotel Niagara:

«Improvviso crollo enorme frana ha provocato tracimazione diga Vajont con gravi danni Longarone. Stop. Diga ha resistito bene. Biadene.»

Lo lesse poi su un giornale distribuito in aereo mentre sorvolavano gli Stati Uniti, che diceva: E' crollata la diga del Vajont! La frana se l'aspettava, però mai aveva temuto una tragedia di quelle dimensioni. Aveva sempre ritenuto il punto debole dell'impianto l'appoggio della diga sulla spalla destra. Per questo aveva fatto eseguire cuciture in acciaio che rendevano solidali gli strati di roccia sui quali si scaricavano le spinte dell'opera. Senza quell'accorgimento, l'imposta non avrebbe resistito alla pressione esercitata dalla lama d'acqua che aveva scavalcato lo sfioratore. Se fosse crollata la diga sarebbero scomparsi, fra gli altri, anche gli abitati di Soverzene, Cadola, Ponte nelle Alpi, e nemmeno la città di Belluno si sarebbe salvata.

«Sono morto anch'io in quel momento. Vi giuro che in quel momento sono morto anch'io.»

()

Aveva cercato più volte di avvertire i dirigenti Enel-Sade dei potenziali rischi dell'impianto idroelettrico, tuttavia i suoi allarmi furono volontariamente ignorati.

La morte

Durante la fase istruttoria per i fatti del Vajont, aveva sempre sostenuto, oltre l'imprevedibilità del disastro nelle misure in cui avvenne, la propria subordinazione al direttore del servizio costruzioni idrauliche. Era solito chiudere ogni discorso sul processo con: Colpa o non colpa, ci sono duemila morti. Al giudice istruttore bellunese, Mario Fabbri, aveva annunciato la minaccia del suicidio in caso di rinvio a giudizio per omicidio colposo plurimo, che era comunque un atto dovuto. Dopo il suo diretto superiore Biadene, sicuramente era l'imputato più importante.

La domenica mattina del 24 novembre 1968, il giorno prima del quale doveva iniziare a L'Aquila il processo di primo grado, alla stazione ferroviaria i suoi avvocati Artale e Ottolenghi lo stavano aspettando per salire sul treno diretto al capoluogo abruzzese. Schiacciato dal rimorso, si suicidò nel suo appartamento a Cannaregio con il gas della cucina, che aveva isolato con nastro adesivo per evitare scoppi devastanti, abbandonando sola la madre di 80 anni, cieca e senza risorse, le sorelle, i cognati e i nipoti. Il giudice istruttore Fabbri, dimostrando grande pietà umana e abnegazione, informò l'anziana madre con una lettera scritta di suo pugno e trovò il tempo di occuparsi privatamente delle sorti della sventurata, che morì circa cinque mesi dopo il suicidio del figlio.

Onorificenze

L'epitaffio alla diga.

I suoi collaboratori sopravvissuti al disastro l'avevano conosciuto durante tutto il corso dei lavori, erano al corrente di quanto si sapeva circa i rischi connessi alla costruzione e alla gestione dell'impianto, ne avevano condiviso le preoccupazioni. Molti anni dopo, malgrado la perdita di parenti, amici e colleghi in quella tragica notte, gli tributarono un reverente ricordo fissando sulla parete della roccia, che affianca il sentiero d'accesso al coronamento della diga, una lastra di marmo con il suo nome, accanto ad analoga lapide che ricorda i loro compagni scomparsi.

Nei media

Cinema

Fumetti

  • Vajont: storia di una diga, Francesco Niccolini (sceneggiatura) Duccio Boscoli (disegni), Padova, BeccoGiallo, 2018, ISBN 9788833140421, OCLC 1090201035.

Bibliografia

  • Mario Passi, Vajont senza fine, Baldini Castoldi Dalai, 2003, ISBN 978-88-6852-039-7.
  • Gianni Cameri, I dimenticati del Vajont. I figli della SADE, Biblioteca dell'Immagine, 2010, ISBN 9-788863-910476.
  • Maurizio Reberschak, Il grande Vajont, 2013ª ed., Cierre,Immagini.

Voci correlate

  • Disastro del Vajont
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